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Brexit: il neonazionalismo globalizzato

Tutti indistintamente si chiedono cosa accadrà nei prossimi mesi, soprattutto se Bruxelles sarà in grado di reggere l’urto. Tuttavia non si può dimenticare che nel Regno Unito c’è un popolo enorme di inglesi adottivi, non ancora aventi diritto al voto ma pienamente integrati e parte sostanziale della economia nazionale, il cui orizzonte rimane l’Unione europea.
A cura di Marcello Ravveduto
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Newspapers are displayed for sale the day after Britain voted to leave the EU, at a newsagents in central London, Britain June 25, 2016. REUTERS/Neil Hall
Newspapers are displayed for sale the day after Britain voted to leave the EU, at a newsagents in central London, Britain June 25, 2016. REUTERS/Neil Hall

Fu Mussolini a riportare in auge l’espressione la “perfida Albione” riferendosi alla Gran Bretagna che aveva spinto la Società delle Nazioni a comminare le sanzioni economiche all’Italia, in seguito al conflitto bellico ingaggiato con l’Etiopia. Da allora il termine è entrato nel dimenticatoio, recuperato, di tanto in tanto, da qualche reazionario di stampo fascista a cui piaceva sfoggiare la retorica mussoliniana.

Ho riflettuto diverse ore prima di scrivere questo articolo per capire come il flusso di news e opinioni si orientava nel web, quale effetto metabolico avrebbero eccitato i social network per digerire l’informazione. C’è di tutto dalle note degli analisti politici a quelle dei Capi di Stato, dalle preoccupazioni dei finanzieri all’entusiasmo degli euroscettici, da chi vuole rilanciare gli Stati Uniti d’Europa agli italiani delusi residenti nel Regno Unito.

Tutti indistintamente si chiedono cosa accadrà nei prossimi mesi, soprattutto se l’Unione sarà in grado di reggere l’urto. Non vi è dubbio, secondo alcuni, che il risultato rafforzerà i nazionalismi continentali a cominciare dall’Ungheria e dal suo governo ultra conservatore. In molti affermano che la paura dei flussi migratori e l’attacco islamico al vecchio continente siano alcune delle motivazioni che hanno condotto la maggioranza dei cittadini a propendere per il “leave”. A dire il vero il referendum fu voluto dal partito del primo ministro Cameron ben prima che montasse l’emergenza migranti. La sua convocazione fu un atto conseguente alla vittoria dei liberali britannici. Per questo è stata sicuramente coraggiosa l’adesione al “remain” del Capo del governo, con la quale ha dimostrato autonomia politica rispetto al suo partito e condivisione di orizzonti con gli altri premier europei.

Sebbene le dichiarazioni degli isolazionisti siano più urlate degli europeisti, non si può dimenticare che i secondi hanno alle loro spalle un popolo enorme di inglesi adottivi, non ancora aventi diritto al voto, pienamente integrati e parte sostanziale della economia britannica. Dalle fabbriche ai pub, dai centri commerciali alle banche, dalle università alle multinazionali, centinaia di migliaia di stranieri “europei” contribuiscono quotidianamente alla crescita del Pil di quella nazione.

Donne e uomini che hanno trasformato lo stile di vita inglese in un melting pot di culture, lingue, sentimenti, religioni, costumi, etnie la cui cifra non è la somma delle differenze ma una nuova identità originale frutto di una moltiplicazione di fattori esponenziali. Per questo è probabile che il referendum sarà in buona parte superato dalla realtà dei fatti. Come può una nazione, la cui capitale è l’emblema dell’avvenuta globalizzazione, chiudersi all’Europa se il suo tessuto socioeconomico si regge su equilibrio armonico in cui i nativi britannici si avviano ad essere una minoranza? Del resto il Regno Unito è stato, sin dai tempi dell’Impero, un nazione mondo. La stessa trasformazione dei dominions in Commonwealth, nel secondo dopoguerra, nacque dalla consapevolezza che la ricchezza nazionale derivava dal mantenimento di canali commerciali con le antiche colonie autodeterminatesi. In fondo, anche la difesa del pound contro l’euro scaturisce dalla necessità di tenere in vita una moneta comunitaria di interscambio tra nazioni rientranti nell’orbita dell’UK.

Il principio intorno a cui ruotava quella scelta era imperniato sulla superiorità culturale, civile ed economica della Gran Bretagna. Una superiorità che ancora oggi gli inglesi delle regioni interne, non certo i londinesi, vorrebbero far valere prendendo le distanze dall’Europa, le cui virtuali occasioni di sviluppo spesso, per i demagoghi locali, nascondono minacce reali.  La gran parte dei sostenitori del “leave” crede che le regole dell’Unione siano nate per imbrigliare gli spiriti animali del mercato, liberati, ormai da oltre un quarantennio, dalla signora Thatcher. Spiriti animali che hanno reso la city il centro della globalizzazione finanziaria e il polmone soffiante del capitalismo neoliberista, ovvero il paradigma interpretativo attorno al quale si sono ristrutturate le economie dell’intero pianeta.

È paradossale il fatto che, proprio quando il neoliberismo è diventato il criterio uniformante dell’austerity europea, la Gran Bretagna abbandoni la partita lasciando le carte sul tavolo. O forse, a pensarci bene, non è paradossale poiché l’estremizzazione del pensiero neoliberista alla fine comporta una strategia di exit dai contesti unitari, dopo averli contaminati, per perseguire il demone dell’individualismo sociale eretto ad ideologia del governo economico. Ciò significa che l’abbandono è l’unica soluzione per evitare il confronto; confronto che implicherebbe l’accettazione del ruolo guida della Germania oramai irraggiungibile in quanto ad apparato industriale, saldezza finanziaria e forza lavoro.

Questa è la paura dei britannici confinati nei loro land, alle prese con l’arrivo di etnie considerate da sempre inferiori e che invece il mondo sta rendendo protagoniste del cambiamento. Su questo supposto complesso di superiorità si sprecano le battute e le freddure lanciate in rete. L’immagine che sintetizza alla perfezione l’ironia digitale è questa fotografia pubblicata su Instagram.

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La croce con cui si è espresso il voto diviene il segno con cui eliminare il Regno Unito dal consesso europeo.

Gli italiani, per quanto sboroni, devono prendere atto di essere più soli nella lotta per la modifica degli assetti unitari. La Francia è in preda a una grave crisi di ristrutturazione sociale, dentro cui agisce il terrorismo fondamentalista; i paesi dell’Est sono neofiti, con economie di mercato ancora poco rodate e in buona parte dipendenti dalla Germania; la Spagna e l’Italia non hanno una classe dirigente adeguata alla sfida; la Grecia è fuori gioco. Intanto, la Russia si propone come punto di riferimento alternativo per i sostenitori del neonazionalismo globalizzato, dal quale sono attratti molti stati del nord Europa.

A questo punto sarà gioco facile per la Germania chiedere di fare quadrato intorno alle sue prospettive di leadership continentale cercando di imporre, attraverso la burocrazia di Bruxelles e della Banca europea, una visione unilaterale per l’uscita dalla crisi. Ma non tutto è perduto. La pressione dei tanti “stranieri” europei potrebbe cambiare le carte in tavola e costringere la Gran Bretagna, una volta avviate le trattative con l’Unione per concordare l’exit, a rendersi conto di aver perso molto di più di quanto abbia guadagnato. Sempre che i Capi di Stato e i cittadini dell’Europa delle nazioni non adottino un atteggiamento di chiusura preventiva trasformando il dialogo in conflitto.

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