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Bolt e il doping, il sospetto è la peggiore sconfitta

“Si parla solo di doping: è triste”. Così Usain Bolt, alla vigilia dei Mondiali di Pechino. Il giamaicano lancia frecciatine a Tyson Gay e Justin Gatlin, squalificati in passato. Mentre continuano le rivelazioni del Sunday Times. La sfida del neopresidente Coe: in gioco la credibilità dell’atletica.
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"La questione del doping è diventata il centro di tutto. Nelle ultime settimane ho sentito parlare e ho letto solo di doping, doping e doping”. Parola di Usain Bolt, il miglior testimonial che l’atletica potesse desiderare, che tornerà nel Nido d’Uccello di Pechino dove ai Giochi di sette anni fa celebrò il suo compleanno con il tris di medaglie d’oro nei 100, nei 200 e nella 4×100. “Io corro per me stesso, e sono gli altri a dire che il mio sport ha bisogno che io vinca, perché ho gareggiato pulito durante tutta la mia carriera. Ma salvare il nostro sport è una responsabilità di tutti gli atleti, ognuno di noi dovrebbe far vedere che si può andare avanti senza bisogno del doping, non è una responsabilità soltanto mia. Io faccio ciò che è giusto, seguo le regole, ma tutti devono capire che il segreto per andare più forte ed essere competitivi è lavorare duro”. Una frecciata, nemmeno troppo velata, ai rivali che negli ultimi anni si sono presi la ribalta della velocità, tutti con un passato di squalifiche per doping: Tyson Gay, Asafa Powell e soprattutto Justin Gatlin, sceso quattro volte quest’anno sotto i 9”80. “Le regole non le ho fatte io e stabiliscono che dopo aver scontato la pena uno può tornare a gareggiare. Gatlin sarà in pista, e devo pensare a batterlo, senza preoccuparmi dei problemi che ha avuto. L'importante è che sia ben concentrato su ciò che devo fare io”.

Doping di sistema – Certo, non aiuta l’inchiesta congiunta del Sunday Times e della rete tedesca Ard, che il 2 agosto rivelarono come un terzo delle medaglie mondiali e olimpiche nel mezzofondo tra il 2001 e 2012 siano andate ad atleti con valori ematici dubbi. L’epicentro del sistema, secondo l’inchiesta, “è la Russia, con oltre l'80% delle medaglie vinte da atleti sospettati di ricorrere ad ‘aiuti'” come le emo-trasfusioni e le microdosi di EPO. Nel 2011, rivelano le due testate in questi giorni, uno studio dell’università di Tubinga finanziato dalla IAAF aveva messo in evidenza come quasi un terzo dei 1800 atleti ai Mondiali di Daegu (tra il 29 e il 34%) avesse fatto ricorso a sostanze proibite nei 12 mesi precedenti. La Iaaf, che aveva consentito ai ricercatori di intervistare gli atleti, ha ritardato la divulgazione dello studio, anche se in un comunicato si difende sostenendo di aver solo “serie riserve sull'interpretazione dei risultati”.

Il nuovo corso di Coe – La notizia arriva a pochi giorni dall’elezione di Sebastian Coe, campione olimpico di Mosca ’80 e Los Angeles ‘84, eletto presidente della federazione internazionale a 24 anni esatti dal record del miglio stabilito il 19 agosto 1981 (poi perso e riconquistato in una settimana. Il doping è il tema su cui gioca la credibilità dell’atletica, e probabilmente gli stessi permessi concessi dalla Iaaf ai ricercatori tedeschi dimostrano come i vertici dello sport siano consapevoli della necessità di un cambio di rotta. “Chi bara riceverà tolleranza zero. Al momento ci sono troppe lacune che colmeremo”, ha dichiarato il neo-presidente, che ha annunciato l’intenzione di creare una commissione etica interna e un’autorità indipendente antidoping.

Fischetto supervisor – Ma al di là degli annunci, le scelte pratiche fanno ancora discutere, come la nomina di Giuseppe, dal 1990 medico della Fidal e dal 2003 membro della commissione antidoping della Iaaf, che si è autosospeso dopo essere stato indagato dalla Procura di Bolzano per favoreggiamento nell’inchiesta sulla positività di Alex Schwazer. In sostanza, per quasi una decina d’anni è rimasto in conflitto d’interesse, nel doppio ruolo di controllore che valuta i parametri ematici degli atleti di tutto il mondo e controllato, che rappresenta una delle 200 nazioni affiliate alla IAAF. E che, anche in buona fede, può agire su nomi e dati degli italiani, può disporre controlli su avversari o proteggere gli atleti azzurri da controlli più serrati, mentre colleghi di altre nazioni non hanno lo stesso potere discrezionale. Dal suo coinvolgimento nell’inchiesta penale ad oggi, Fischetto ha ricevuto ampie attestazioni di solidarietà da parte della Iaaf, ma in molti si sarebbero aspettati una nomina più prudente, di rottura anche solo formale con un passato ancora troppo nebuloso.

Agenzie terze – La vera questione di fondo, comunque, rimane la dipendenza del sistema di controlli dai fondi e dalle decisioni delle federazioni internazionali. In questo modo, la politica antidoping si ritrova subordinata ai soggetti che più di tutti sono interessati alla vendibilità del prodotto-sport, legata anche al livello di prestazione, e che di conseguenza pagherebbero un prezzo maggiore in termini di credibilità nel caso di positività di un atleta di vertice. L’ideale sarebbe staccare i controlli dalle federazioni internazionali che disciplinano le varie discipline sportive e dai comitati olimpici nazionali. Magari con un interessamento dei governi e la creazione, attraverso una diversa redistribuzione dei capitali della WADA, di agenzie autonome rispetto a chi governa lo sport.

Si può battere il doping? – La battaglia è dura, l’uso di sostanze proibite per migliorare le prestazioni ha una storia antica almeno quanto l’uomo. Le prime testimonianze, infatti, furono notate da Filostrato e Galerio nel terzo secolo avanti Cristo, durante le antiche Olimpiadi. Un largo numero di piccole statue di Zeus trovate intorno alle arene dove si svolgevano le gare dimostravano il desiderio degli atleti di chiedere perdono per aver contravvenuto alle regole. E aumentare l’efficacia dei test, far sì che i rischi di essere scoperti siano maggiori, è uno dei principali modi per rendere meno allettante la prospettiva di barare e doparsi, sia per gli atleti di seconda fascia (aumentano i costi diretti e indiretti, a fronte di margini di guadagno non garantiti e di rischi più alti) sia per i più forti, che vedrebbero aumentare i costi indiretti e le possibili perdite dovute all’interruzione dei contratti pubblicitari in caso di squalifica. È questo il dilemma in cui si trova adesso la IAAF. Rischiare nuovi casi Armstrong, vedere le classifiche mondiali e olimpiche stravolte, o mantenere lo status quo e alimentare sospetti? Al centro del sistema c’è sempre Usain Bolt, non toccato dal terremoto che ha travolto quasi tutti i velocisti giamaicani due anni fa. È un segno che è pulito o che è troppo potente per essere scoperto e squalificato? La IAAF non può più permettersi il proliferare di simili sospetti, che purtroppo i dati dell’università di Tubinga, anche solo per analogia, alimentano. In questo momento, il sospetto è la sconfitta peggiore. Per tutti.

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