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Arancia Meccanica al Teatro Bellini (BACKSTAGE ANTEPRIMA)

Siamo andati a curiosare dietro le quinte dello spettacolo di Gabriele Russo, “Arancia Meccanica” che debutterà in prima nazionale il 1 aprile al Teatro Bellini di Napoli. Abbiamo raccolto numerose testimonianze e immagini inedite sulla lavorazione di uno spettacolo che si annuncia già come un “caso”.
A cura di Andrea Esposito
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Drughi, lattepiù, ultraviolenza, fare suegiù, karasciò. Sono tutti termini che sono entrati nel “vocabolario collettivo” grazie al film di Stanley Kubrick (1971), adattamento del romanzo dello scrittore Anthony Burgess. Stiamo parlando, naturalmente, di “Arancia meccanica” da cui Gabriele Russo è partito per il suo settimo spettacolo, in scena al Teatro Bellini dall’1 al 13 aprile.

“È un testo che spaventa – afferma il regista durante le prove – innanzitutto per il riferimento cinematografico firmato da un grande maestro (film che, ci tiene a sottolineare, ha cercato in ogni modo di dimenticare!) ma anche per l’impegno produttivo”. Il testo, infatti, presenta al lettore una sessantina di personaggi che, in questo allestimento, sono stati ridotti e affidati a sette attori.

Interessante quindi capire come Gabriele Russo, da questo mondo narrativo ultra-popolato nonché da un’iconografia cinematografica diventata cult, sia riuscito a districarsi per arrivare allo spettacolo. Ma andiamo per ordine, cominciamo dal testo. “La traduzione è stata curata da Tommaso Spinelli, mentre io ho lavorato all’adattamento. Ho mantenuto la struttura di Burgess cambiando però piccole cose. Sia il romanzo che il film sono narrati in prima persona, un aspetto che facilita molto il racconto e il rapporto con il pubblico, tuttavia in teatro la figura del narratore mi risultava un po’ ambigua perché credo che sulla scena le cose debbano accadere e non essere narrate. Inoltre ho asciugato la parte musicale in senso stretto: il testo di Burgess, infatti, è ricchissimo di canzoni. Ho deciso di eliminarne molte perché la commedia musicale non è nelle mie corde: non amo che in scena un attore smetta di recitare per mettersi a cantare. Ho lasciato invece la ritmica del linguaggio dei drughi: si tratta, è vero, di frasi musicali, ma assolutamente recitabili anche in prosa perché possiedono una metrica molto teatrale”.

Anche se le canzoni sono state eliminate, possiamo dire con certezza che la musica avrà un ruolo centrale nello spettacolo tanto che per la composizione è stato chiamato uno dei più intelligenti – e controversi – musicisti della scena contemporanea: “Essendo il testo così ricco di parti musicali, ho pensato che era necessario un vero compositore e immediatamente mi è venuto in mente Morgan. Non perché lui sia violento, tutt’altro, è una persona dolcissima, ma pensavo che avesse, da una parte, la cultura e, dall’altra, il contatto con la contemporaneità che servivano per fare un ottimo lavoro di rielaborazione delle musiche originali”.

La scenografia – realizzata da Roberto Crea – è una scatola nera al cui interno si materializzano le visioni di Alex, installazioni di arte contemporanea che si autodistruggono nella scena successiva. Un mondo rarefatto in cui però avvengono cose reali. I costumi firmati da Simona Aversano e le luci di Salvatore Palladino completano questa dimensione onirica.

Rispetto ai personaggi, nello spettacolo i drughi sono tre e non quattro come nell’opera originale e il protagonista, Alex, è interpretato da Daniele Russo, il fratello del regista che, gli suggerì di leggere il romanzo di Burgess (insieme a lui sul palco ci sono Marco Mario de Notaris, Alfredo Angelici, Martina Galletta, Sebastiano Gavasso, Alessio Piazza e Paola Sambo). Da sempre considerato un personaggio immorale che fa il male unicamente per il male (una sorta di Riccardo III dei nostri giorni), in questo allestimento Alex vestirà panni più sfaccettati. Gabriele, infatti, ci spiega come, a suo parere, nel romanzo l’autore tenti di dare una spiegazione alla violenza del protagonista: “C’è un passaggio del testo in cui Alex dice all’assistente sociale che né lo Stato né la Chiesa gli hanno insegnato a creare e quindi lui non può fare altro che usare la propria energia per distruggere. La distruzione è il suo inno alla gioia”. Sinfonia con la quale si conclude, infatti, il film di Kubrick.

Romanzo considerato “distopico” quando fu pubblicato nel 1962, oggi appare assolutamente attuale e presente. Ma qual è, secondo Gabriele Russo, il teatro dell’oggi? E quello del domani? “Penso che il teatro oggi debba ritrovare la propria natura di assemblea, che debba essere un luogo di confronto di pensieri. Spero che in futuro si darà più spazio alla nuova drammaturgia. In altri paesi, dove il teatro è ancora (o di nuovo) un’assemblea, la vera star non è il regista, ma l’autore. Se guardiamo all’estero, dove il teatro funziona, si comprende che il teatro è contemporaneo, che ha bisogno di nutrirsi di un testo che parli dell’oggi e del corpo degli attori che calcano quella scena oggi”.

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