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Alcoa chiude. E voi non avete fatto nulla

Alcoa chiude definitivamente. E riparte il circo delle promesse. Ma perché Alcoa aveva deciso di andarsene? E cosa è stato fatto dai politici negli ultimi 5 anni?
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A cura di Michele Azzu
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La multinazionale americana Alcoa ha dato l’annuncio: lo stabilimento sardo, quello del Sulcis dove gli operai protestano da anni, chiude i battenti. “Ma non aveva già chiuso?”, si saranno chiesti in molti. E non a torto dato che, di fatto, la fabbrica è ferma dal 2012.

Ebbene no, ufficialmente Alcoa non aveva ancora chiuso, anche se è dal 2009 che esiste l’intenzione. Come potete capire, non si tratta di una buona notizia. La Cgil parla di: “Disco rotto”, l’azienda va ripetendo le stesse cose ormai da anni. E si solleva, una volta di più, il polverone di polemiche e promesse sul futuro dello stabilimento e di chi ci lavora. In effetti, a sentire parlare di chiusura di Alcoa ogni due o tre mesi, nell’arco di cinque anni, il rischio di perdere il polso della situazione – e l’attenzione – è alto. Allora, sarà meglio ricordare ai politici sardi e al governo perché l’azienda si è mostrata così inconsolabile.

Le ragioni dell’abbandono della Sardegna sono state rese note più volte: “Assenza di infrastrutture, alti costi dell’energia, governo nazionale inaffidabile”. Problemi ben noti, dall’alba dei tempi della crisi in Sardegna. Sulle infrastrutture pesano ritardi e incurie di decenni: in Sardegna non esiste ancora oggi un’autostrada, la rete ferroviaria è un colabrodo. Proprio i treni possono essere un buon esempio della situazione infrastrutture: i mezzi per l’alta velocità che dovrebbero collegare in 2 ore i due capoluoghi Cagliari e Sassari – e quindi l’isola da nord a sud – sono da anni fermi per collaudi.

Solo di recente il nuovo assessore ai trasporti si è interessato per ritrovarli: ci sono voluti 4 anni. Poi, l’energia. Aziende e politici concordano nel dire che in Sardegna, le tariffe energetiche risultano più alte che nel resto d’Italia (circa il 20-40% in più). Per via dei costi di trasporto (e non solo). In buona parte dell’isola il gas nelle case arriva ancora con le bombole, e le bombole sono care. E per le aziende? Alcoa pagava meno l’energia, ma questi sconti sono poi stati individuati dalla Commissione Europea come “aiuti di stato” illegali, e Alcoa ha dovuto pagare 300 milioni di multa.

Terzo motivo, il governo nazionale inaffidabile. Da Berlusconi che a un comizio in piazza telefonò a Putin per risolvere la questione dell’Eurallumina (fabbrica gemella all’Alcoa), a Passera e Barca che furono letteralmente costretti a scappare in elicottero dal Sulcis per le proteste degli operai, i governi di questi ultimi anni non hanno mostrato alcuna efficacia nella risoluzione della vertenza, delle trattative, o nel venire incontro alle richieste di Alcoa. Eppure quelle richieste sono ragionevoli, perché costruire strade, riparare i treni, risolvere in qualche maniera la spada di damocle dell’energia, porterebbe altri investitori nell’isola. Mica solo Alcoa. I sindacati parlano di disco rotto dell’azienda, ma è dura cambiare disco se i problemi, anno dopo anno, decennio dopo decennio rimangono sempre gli stessi.

Un altro grande bluff della politica sulla questione Alcoa (e non solo) è quella del famoso “Piano Sulcis”, il protocollo d’intesa firmato il 13 novembre 2012, all’indomani della fuga in elicottero di Passera e Barca, per stabilire gli strumenti dello sviluppo nella provincia più povera d’Italia. Con una dote finanziaria di 451 milioni (successivamente portati a 623) trovati col solito gioco delle tre carte: 233 milioni dai fondi regionali, 128 dal fondo sviluppo e coesione, 90 dal governo. Una parte viene addirittura dalla multa pagata da Alcoa per gli aiuti di stato. Spiccioli, pochi spiccioli usati male. A parte firmare un contratto di sviluppo per Eurallumina, a parte realizzare un bando di concorso molto fumoso dal nome “99 ideas”, l’unica cosa notevole realizzata da questo Piano, ad oggi, sono le esenzioni fiscali per 4mila piccole e medie imprese, che faticano a sopravvivere. Insomma, nessuno sviluppo, sempre il solito assistenzialismo dei momenti elettorali.

Non fraintendetemi: io sto coi lavoratori al 100%. E non salvo Alcoa dalla colpa – almeno morale – di aver lasciato migliaia di famiglie sul lastrico, mentre la produzione di alluminio si poteva continuare, e facendo utili. Con ricadute occupazionali per circa 5000 persone, con un presidio in tenda che ancora esiste fuori dalla fabbrica (e sono oltre 100 giorni ora). Ma, siamo onesti, il vero disco rotto è quello della politica che continua a parlare di trattative e di soluzione, che vanno avanti da anni, quando nessuno muove un dito. Quanto è facile – e inutile – continuare a parlare male degli americani, ora che sono andati via?

A lor signori vorrei chiedere: ma in 5 anni, cosa avete fatto per risolvere il dramma dell’Alcoa, del Sulcis? Ve lo dico io. Non avete fatto un cazzo.

Foto: Flickr Cgil Nazionale (cc creative commons)

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Michele Azzu è un giornalista freelance che si occupa principalmente di lavoro, società e cultura. Scrive per L'Espresso e Fanpage.it. Ha collaborato per il Guardian. Nel 2010 ha fondato, assieme a Marco Nurra, il sito L'isola dei cassintegrati di cui è direttore. Nel 2011 ha vinto il premio di Google "Eretici Digitali" al Festival Internazionale del Giornalismo, nel 2012 il "Premio dello Zuccherificio" per il giornalismo d'inchiesta. Ha pubblicato Asinara Revolution (Bompiani, 2011), scritto insieme a Marco Nurra.
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