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69 anni fa il suicidio di Cesare Pavese, su un biglietto scrisse: “Non fate pettegolezzi”

Era il 27 agosto del 1950 quando in una camera dell’albergo Roma di Piazza Carlo Felice a Torino, il poeta e scrittore Cesare Pavese si tolse la vita ingerendo dieci bustine di sonnifero. Con lui aveva inizio quella che sarebbe poi diventata “la noia” degli intellettuali moderni. “Non fate troppi pettegolezzi” scrisse sul biglietto d’addio.
A cura di Andrea Esposito
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©lapresse archivio storico
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Era il 27 agosto del 1950, esattamente sessantanove anni fa, quando in una camera dell'albergo Roma di Piazza Carlo Felice a Torino, il poeta e scrittore Cesare Pavese si tolse la vita ingerendo dieci bustine di sonnifero. In preda ad una profonda depressione e tormentato dalla delusione amorosa con l’attrice americana Constance Dowling, alla quale dedicò i versi di “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, lo scrittore piemontese, proprio mentre raggiungeva l’apice del suo successo, decise di mettere prematuramente fine alla sua vita all’età di 42 anni col suicidio. Sul biglietto d'addio è famosa la frase che scrisse: "Non fate troppi pettegolezzi"

Pavese, come molti della sua generazione (nacque nel 1908), ebbe una vita difficile e avventurosa: passò l’infanzia a Santo Stefano Belbo, un piccolo paesino delle Langhe in provincia di Cuneo, ma malgrado le buone condizioni economiche della famiglia, furono anni tutt’altro che facili. Il padre morì di cancro quando aveva cinque anni e crebbe solo con la madre che gli impartì un’educazione molto rigida accentuando ancor di più il suo carattere timido e introverso.

Cesare Pavese, il primo intellettuale moderno

Frequentò le scuole a Torino dove incontrò alcuni dei suoi amici più cari come Mario Sturani, compagno di studi e Tullio Pinelli, a cui farà leggere per primo le bozze di “Paesi tuoi” e lascerà una lettera prima di suicidarsi. Quest’ultimo, uno dei più grandi sceneggiatori del cinema italiano, sconvolto da questa tragedia gli dedicherà pochi anni dopo un episodio de “La dolce vita” di Fellini, quello di Steiner, l’intellettuale che si toglie tragicamente la vita e nel cui pensiero riecheggia lo spirito sensibile e raffinatissimo dell’amico poeta. Ma questi sono anche gli anni degli incontri con l'opera di D'Annunzio e di Alfieri che ebbero grande influenza nella sua poetica. In generale Pavese nella sua opera rimetteva al centro la ricerca di contatti umani, di ritorno al mondo rurale da cui proveniva senza però mai distaccarsi dall'ossessione della solitudine e dall'idea della morte. Il passaggio dalla poesia alla prosa fu immediato e quasi naturale, sebbene nel suo caso non si possa parlare di forma romanzo in senso compiuto, ma senz'altro di narrativa. Nei suoi racconti improntati a un realismo verghiano ma più di tutto alla narrativa americana c'è comunque una forte impronta piemontese, nel legame con la propria terra, nell'uso di un linguaggio molto vicino ai contadini e che si riflettono in una prosa molto scorrevole e "parlata".

Fu un intellettuale modernissimo, fin dal 1930 si dedicò all'attività di traduttore che continuò fino al 1947. Tradusse “Moby Dick” di Melville, “Riso nero” di Anderson, “Ritratto dell’artista da giovane” di Joyce. La sua attività in Einaudi e la frequentazione di intellettuali antifascisti gli costò, nel 1935, l'arresto e la condanna al confino politico a Brancaleone Calabro, dove trascorse un anno afflitto da profonde crisi di depressione. In questo periodo iniziò a scrivere il diario che in seguito intitolò “Il mestiere di vivere”. Nel 1936, tornato in libertà, pubblicò il volume di poesie “Lavorare stanca”, poi scrisse due romanzi brevi “La bella estate” e “La spiaggia”. Durante la seconda guerra mondiale si rifugiò in campagna dalla sorella e trascorse diversi periodi nascosto nel convento di Crea. Dopo la liberazione si iscrisse al Partito Comunista e scrisse il romanzo politico “Il compagno”. Nel 1950, l’anno della sua morte, vinse il Premio Strega con "La bella estate" e fu pubblicato il romanzo della maturità “La luna e i falò”.

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